giovedì 5 gennaio 2012

La cricca - Paolo Rumiz

Una cricca spolpa Trieste. E noi assistiamo.
E così, quasi per caso, abbiamo avuto la prova definitiva che anche a Trieste esiste una cricca.
Una macchina di potere che è stata capace di affossare l’occasione miliardaria dell’Expo  su cui la città avrebbe potuto giocare tutte le sue carte.
Una banda pronta a tutto, pur di impedire che altri mangino la torta.
Anche a lavorare con lettere anonime e la denigrazione contro chi si oppone a questo monopolio soffocante.
Ora è chiaro: non è l’ideologia ma questo potere quasi scientifico di interdizione a questa bulimia di onnipotenza a lacerare il centrodestra alla vigilia delle elezioni.
Ricordo a tutti che dell’esistenza di una “cupola” a Trieste ha parlato prima Claudio Boniciolli, quand’era presidente dell’Autorità portuale e poi Roberto Dipiazza da Sindaco.
E’ questa macchina ramificata di connivenze, capace anche di trasversalità con il centrosinistra, che vogliamo provocatoriamente chiamare “mafia”, che accelera la nostra decadenza nonostante Dio ci abbia messo in una delle condizioni più favorevoli del Mediterraneo per crescere e prosperare.
In qualsiasi altro luogo, gente simile sarebbe cacciata con ignominia e costretta a pagare i danni.
Qui li abbiamo lasciati crescere, li abbiamo votati e ora sono dappertutto. Come la gramigna.
In porto, in Comune, in Parlamento, in Regione e nelle sue aziende partecipate, all’Acegas, nelle Coop, alla Camera di Commercio, alla Fondazione Crt e in una infinità di organi collaterali.
Spolpano la cosa pubblica, ingrassano se stessi e bloccano chi non si genuflette.
Ora l’omertà si sta rompendo, ma non per senso civico, non perché Trieste, la città cara al cuore, ha rialzato la testa.
Si rompe come a Roma, o come in Calabria, per giochi di potere, perché qualcuno tra gli ammessi al banchetto è rimasto deluso dalle elargizioni del Sultano.
Gli altri hanno taciuto, per un ventennio, come se il futuro della città non importasse.
E noi? Abbiamo vissuto la città in bermuda e infradito, come turisti, come se non fosse nostra ma un luogo di vacanza altrui.
Come se non sapessimo che i nostri figli per trovare lavoro debbano andare lontano o strisciare come vermi davanti a questa banda dispensatrice di briciole e detentrice di un potere ereditario.
Dovremmo farci un po’ di domande, nel tempo che ci separa dal voto.
Dov’è finito il nostro senso civico, il nostro senso di appartenenza a questa terra di frontiera che ha partorito capitani di mare e grandi costruttori di motori?
Dove sono finiti la memoria e l’esempio dei tanti triestini che hanno lasciato alla collettività il loro personale patrimonio con mirabile senso civico e del bene comune?
Ho paura di rispondere a queste domande perché misurerei l’abisso che mi separa dal passato.
Come abbiamo potuto?
Perché abbiamo tollerato che il porto tornasse nelle mani di chi finora ne aveva fatto un luogo di monopoli e favoritismi?
Dov’è finita la nostra memoria delle bianche navi?
Perché non abbiamo saputo esigere un professionista serio, magari anche straniero al timone dell’azienda più strategica del Nord Adriatico?
Perché non chiediamo alla Camera di Commercio contezza delle sue iniziative, sui contributi che infligge alle categorie del terziario, sui risultati delle sue decine di inutili missioni all’estero?
Perché il suo presidente ipotizza un milione d presenze l’anno al “suo” improbabile Parco del mare e accredita però previsioni per un futuro miserabile da 70 mila abitanti per la “nostra” città?
Perché nessuno chiede il conto per l’efficienza della gestione dell’Acegas o mette il naso in quell’altro santuario discutibilmente gestito che sono le Cooperative operaie, caposaldo inesplorato dell’immobilismo locale ?
Perché li abbiamo lasciati fare?
Il nostro disinteresse trova un riscontro perfetto anche nel volto fisico di Trieste.
Le sta scolpita addosso.
Perché non reagiamo davanti all’espianto delle venerabili pietre in “masegno” e la loro sostituzione con parallelepipedi color topo dove gli escrementi si spalmano così bene da creare un diffuso effetto pisciatoio?
Perché abbiamo tollerato l’imbroglio che ha creato un quartiere morto tra Cavana e San Giusto, un labirinto di fantasmi dove l’anima, come le vecchie pietre (rubate sotto il naso di tutti), è volata via da tempo?
“I ne porta via tuto” sento lamentare.
Sbagliato: la frase giusta è: “se lasemo portar via tuto”.
Se così non fosse non avremmo accettato senza rivoltarci che la memoria marinara di Trieste fosse insultata con la trasformazione della pescheria, uno dei più begli edifici  del Mediterraneo, in uno spazio vuoto di eventi e idee , quando potrebbe essere il luogo dell’identità, lo spazio dove mostrare ai “foresti”ciò che siamo stati nei giorni grandi.
Ed ecco  altre domande.
Perché consentiamo che il sentierone pedonale delle notti triestine diventi luogo di sballo, urla, pessima musica apolide a volumi insopportabili, mentre ai nostri musicanti di strada, dalle emissioni estremamente inferiori in termini di decibel, sono costretti alla fame e umiliati nella triestinità di cui sono portatori.
 Perché non reagiamo quando a pochi passi dalla questura e dalla centrale dei vigili urbani fuori, da locali discutibili, il ghetto che fu degli ebrei, doloroso luogo della memoria, nelle ore notturne diventa spazio di canti sguaiati, ubriacature, piscio e vetri rotti, senza che nessuno venga a imporre il decoro?
A cosa serve tutto quello show di manganelli e pistole, se non sappiamo nemmeno imporre la decenza?
Perché consentiamo che Trieste, la città che è porto e il cui destino è tutt’uno col mare, si ritrova snobbata da una regione di un milione di abitanti, dopo essere stata entro strategico e spazio internazionale di investimenti per un impero di cinquanta milioni di anime?
Perché non ci solleviamo contro un palazzo che taglia fondi alla logistica portuale, pur ricevendo annualmente trecento milioni di euro in termini di tasse?
E perché siamo stati a guardare il declassamento voluto, anzi pervicacemente propiziato, del ruolo di città simbolo del ponte tra Centro Europa e Mediterraneo?
Perché abbiamo taciuto di fronte alla fuga di Trieste dagli eventi che contano e la sua sostituzione con Udine, Pordenone, Cividale, Gorizia e persino Monfalcone?
Perché i gloriosi teatri locali sono sempre nelle stesse mani senza ombra di rinnovamento?
Stiamo uscendo dalla carta geografica, perché così piace alla cricca.
Settantamila abitanti, è questo il nostro destino.
La mappa dell’Adriatico parla già chiaro.
Non abbiamo più traghetti.
E’ rimasto solo Durazzo, Albania.
Niente per Patrasso, Pola, Venezia e Spalato.
Il mare non è più nostro.
E’ diventato “cosa loro”.
Par di sentire il rumore dei catenacci che lo sprangano.
Povera mia città dell’anima, di tante partenze e di tanti ritorni.
Non credo ti meriti tutto questo.
Paolo Rumiz

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