lunedì 10 dicembre 2012

Tracce da seguire




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"Non troveremo mai un fine per la Nazione, ne una nostra personale soddisfazione nel mero perseguimento del benessere economico, nell’ammassare senza fine beni terreni.

Non possiamo misurare lo spirito nazionale sull’indice Dow Jones, ne i successi del Paese sul prodotto interno lordo.

Il P.I.L. comprende anche l’inquinamento dell’aria, la pubblicità delle sigarette e le ambulanze per sgomberare le nostre autostrade dalle carneficine dei nostri fine settimana.

Il P.I.L. mette nel conto le serrature speciali per le nostre porte di casa e le prigioni per coloro che cercano di forzarle.

Comprende programmi televisivi che valorizzano la violenza per vendere prodotti violenti ai nostri bambini.

Cresce con la produzione di Napal, missili e testate nucleari.

Si accresce con gli equipaggiamenti che la polizia usa per sedare le rivolte e non fa che aumentare quando sulle loro ceneri  si ricostruiscono i bassifondi popolari.

Il P.I.L. non tiene conto della salute delle nostre famiglie, della qualità della loro educazione o della gioia dei loro momenti di svago.

Non comprende la bellezza della nostra poesia, la solidità dei valori famigliari.

Il P.I.L. non misura ne la nostra arguzia ne il nostro coraggio, ne la nostra saggezza ne la nostra conoscenza,  ne la nostra compassione ne la devozione al nostro Paese.

Misura tutto il P.I.L.  eccetto quello ciò che rende la vita veramente degna di essere vissuta.

Può dirci tutto sull’America, ma non se possiamo essere orgogliosi di essere americani."
                                                                                                                   


                                                                                                             Robert Kennedy



Molti Cittadini vivono Trieste con rassegnazione, si accorgono di tutte le cose che non vanno, brontolano e mugugnano, ma credono che ormai nulla possa cambiare e che il declino sia irreversibile.
Meno di cento anni fa l'Austria ha lasciato all'Italia una città prospera, dinamica con alle spalle quasi due secoli di crescita sia economica che culturale.
Ora siamo "rasi al suolo", una politica di politicanti scellerati ha creato divisioni etniche e politiche seguendo la logica che proprio dividendoci non saremmo stati in grado di unirci e lottare assieme per un futuro migliore per noi e per i nostri figli.

Vogliamo lasciarli fare?

Non c'è un progetto, un programma per il futuro, si viaggia a vista annusando l'aria cercando di capire cosa i futuri elettori vogliono sentirsi dire, basti pensare che si parla sia di un rigassificatore in mezzo al golfo e di promozione turistica, si parla della Ferriera come l'unica fonte d'inquinamento ma si permette di circolare in centro con automobili fornite di motori da camion capaci di bruciare 20 litri di carburante per percorrere 100 chilometri, si permette tutto pur di non scontentare nessuno.
Non sono previste scelte impopolari ma che guardino lontano e sono in pochi pronti a impegnarsi per lasciare alle generazioni future una città migliore, si è esaurito l'orgoglio di essere triestini.



Faccio mia questa ampia analisi apparsa su "Il Piccolo" poco prima dell'ultima consultazione elettorale nel 2011.


Dovremmo farci un po’ di domande, nel tempo che ci separa dal voto.


Dov’è finito il nostro senso civico, il nostro senso di appartenenza a questa terra di frontiera che ha partorito capitani di mare e grandi costruttori di motori?
Dove sono finiti la memoria e l’esempio dei tanti triestini che hanno lasciato alla collettività il loro personale patrimonio con mirabile senso civico e del bene comune?
Ho paura di rispondere a queste domande perché misurerei l’abisso che mi separa dal passato.
Come abbiamo potuto?
Perché abbiamo tollerato che il porto tornasse nelle mani di chi finora ne aveva fatto un luogo di monopoli e favoritismi?
Dov’è finita la nostra memoria delle bianche navi?
Perché non abbiamo saputo esigere un professionista serio, magari anche straniero al timone dell’azienda più strategica del Nord Adriatico?
Perché non chiediamo alla Camera di Commercio contezza delle sue iniziative, sui contributi che infligge alle categorie del terziario, sui risultati delle sue decine di inutili missioni all’estero?
Perché il suo presidente ipotizza un milione d presenze l’anno al “suo” improbabile Parco del mare e accredita però previsioni per un futuro miserabile da 70 mila abitanti per la “nostra” città?
Perché nessuno chiede il conto per l’efficienza della gestione dell’Acegas o mette il naso in quell’altro santuario discutibilmente gestito che sono le Cooperative operaie, caposaldo inesplorato dell’immobilismo locale ?
Perché li abbiamo lasciati fare?
Il nostro disinteresse trova un riscontro perfetto anche nel volto fisico di Trieste.
Le sta scolpita addosso.
Perché non reagiamo davanti all’espianto delle venerabili pietre in “masegno” e la loro sostituzione con parallelepipedi color topo dove gli escrementi si spalmano così bene da creare un diffuso effetto pisciatoio?
Perché abbiamo tollerato l’imbroglio che ha creato un quartiere morto tra Cavana e San Giusto, un labirinto di fantasmi dove l’anima, come le vecchie pietre (rubate sotto il naso di tutti), è volata via da tempo?
“I ne porta via tuto” sento lamentare.
Sbagliato: la frase giusta è: “se lasemo portar via tuto”.
Se così non fosse non avremmo accettato senza rivoltarci che la memoria marinara di Trieste fosse insultata con la trasformazione della pescheria, uno dei più begli edifici del Mediterraneo, in uno spazio vuoto di eventi e idee , quando potrebbe essere il luogo dell’identità, lo spazio dove mostrare ai “foresti”ciò che siamo stati nei giorni grandi.

Ed
 ecco  altre domande.

Perché consentiamo che il sentierone pedonale delle notti triestine diventi luogo di sballo, urla, pessima musica apolide a volumi insopportabili, mentre ai nostri musicanti di strada, dalle emissioni estremamente inferiori in termini di decibel, sono costretti alla fame e umiliati nella triestinità di cui sono portatori.
 Perché non reagiamo quando a pochi passi dalla questura e dalla centrale dei vigili urbani fuori, da locali discutibili, il ghetto che fu degli ebrei, doloroso luogo della memoria, nelle ore notturne diventa spazio di canti sguaiati, ubriacature, piscio e vetri rotti, senza che nessuno venga a imporre il decoro?
A cosa serve tutto quello show di manganelli e pistole, se non sappiamo nemmeno imporre la decenza?
Perché consentiamo che Trieste, la città che è porto e il cui destino è tutt’uno col mare, si ritrova snobbata da una regione di un milione di abitanti, dopo essere stata entro strategico e spazio internazionale di investimenti per un impero di cinquanta milioni di anime?
Perché non ci solleviamo contro un palazzo che taglia fondi alla logistica portuale, pur ricevendo annualmente trecento milioni di euro in termini di tasse?
E perché siamo stati a guardare il declassamento voluto, anzi pervicacemente propiziato, del ruolo di città simbolo del ponte tra Centro Europa e Mediterraneo?
Perché abbiamo taciuto di fronte alla fuga di Trieste dagli eventi che contano e la sua sostituzione con Udine, Pordenone, Cividale, Gorizia e persino Monfalcone?
Perché i gloriosi teatri locali sono sempre nelle stesse mani senza ombra di rinnovamento?
Stiamo uscendo dalla carta geografica, perché così piace alla cricca.
Settantamila abitanti, è questo il nostro destino.
La mappa dell’Adriatico parla già chiaro.
Non abbiamo più traghetti.
E’ rimasto solo Durazzo, Albania.
Niente per Patrasso, Pola, Venezia e Spalato.
Il mare non è più nostro.
E’ diventato “cosa loro”.
Par di sentire il rumore dei catenacci che lo sprangano.
Povera mia città dell’anima, di tante partenze e di tanti ritorni.
Non credo ti meriti tutto questo.
Paolo Rumiz


                                             

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